30 settembre 2019
Condominio – l’amministratore cessato dal suo incarico non va più in prorogatio
Uno degli aspetti più interessanti – e dalle più significative ricadute pratiche – della riforma del 2012 / 2013 è costituito dalla regola che disciplina la cessazione dell’incarico dell’amministratore. Rispetto a prima della riforma, infatti, la disciplina legale – e, con essa, le sue ricadute pratiche – è significativamente mutata. Viene, tuttavia, spesso da chiedersi se i condomini e gli amministratori abbiano coscienza della cosa.
Anteriormente alla riforma, quando l’amministratore smetteva di essere tale (per la naturale cessazione del suo incarico, per la sua revoca, per le sue dimissioni, …) di fatto quasi nessuno se ne accorgeva. Più precisamente, la cosa passava inosservata e sotto silenzio se non veniva nominato subito un nuovo amministratore, pronto a subentrare a quello uscente.
Questo dipendeva dal fatto che, in buona sostanza, l’amministratore cessava di essere in carica ed entrava in quella che veniva – e ancora viene, laddove l’istituto trova applicazione – chiamata prorogatio. Il che, sul piano pratico, concreto e operativo, significava che l’amministratore, con buona pace del suo nuovo status di ex amministratore (o amministratore uscente), continuava a operare esattamente come prima, facendo tutto quanto faceva prima e percependo il medesimo compenso.
All’esito dell’entrata in vigore, nel 2013, della riforma del condominio del 2012, il quadro è completamente cambiato: basti dire che adesso vige l’art. 1129, ottavo comma, cod. civ., ai sensi del quale “Alla cessazione dell'incarico l'amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi”.
Come si vede, quindi, la normativa attuale incide in maniera molto più profonda non solo sugli aspetti più strettamente giuridici, ma anche sui risvolti pratici della situazione che nasce dalla cessazione dell’amministratore dal suo incarico.
Il punto è capire che cosa effettivamente succede, alla luce della normativa vigente, quando un amministratore cessa di essere tale.
Le dimissioni equivalgono alla revoca e alla cessazione
Il primo punto degno di attenzione, a livello generale, è il fatto che l’art. 1129, ottavo comma, cod. civ. non distingue le tre diverse ipotesi della fine del rapporto tra l’amministratore e il condominio: la norma parla di “cessazione dell'incarico” e con questo mette sullo stesso piano le tre ipotesi di cessazione fisiologica per scadenza dell’incarico, dimissioni volontarie e revoca. Detto altrimenti: la disciplina, che il legislatore ha dettato per il periodo successivo a quando l’amministratore ha smesso di essere tale, è la medesima a prescindere dalla ragione per cui ciò è avvenuto.
Le novità introdotte dalla riforma
Si è accennato alla circostanza che l’amministratore, pur cessato dall’incarico, continuava a operare esattamente come prima, facendo tutto quanto faceva prima e percependo il medesimo compenso.
Il legislatore ha decisamente voluto intervenire su questo stato di cose, ma durante il percorso della riforma sono state vagliate varie opzioni. Basti pensare che ad un certo punto, durante le varie scritture del testo della nuova legge, si è arrivati a questa formula: “Nell'ipotesi di revoca prima della scadenza, è dovuto all'amministratore il compenso per i successivi venti giorni per il compimento delle operazioni di presentazione del rendiconto e di successione dall'incarico, fermo restando l'obbligo della consegna immediata della cassa, del libro dei verbali e di ogni altro carteggio relativo a operazioni di riscossione delle quote, nonché a quelle da svolgere con urgenza, al fine di evitare il pregiudizio degli interessi comuni e dei singoli condomini” e alla previsione “Il compenso dell'amministratore comprende i costi delle operazioni necessarie alla successione nel suo incarico” [così il testo dell'art. 1129 c.c. licenziato in prima battuta al Senato – fonte: https://www.condominioweb.com/un-focus-sulla-prorogatio-dellamministratore-di-condominio.16237].
Adesso vige – come si è visto – il nuovo art. 1129, ottavo comma, cod. civ., che prevede l’obbligo dell’amministratore uscente di consegnare la tutta la documentazione e di compiere le “attività urgenti” allo specifico scopo di “evitare pregiudizi agli interessi comuni”. Il tutto – la norma è esplicita – “senza diritto ad ulteriori compensi”.
Che cosa se ne può e se ne deve dedurre?
L’amministratore non più in carica oggi – attività
Per fare sintesi: che cosa può e deve fare, oggi, l’amministratore che non è più in carica? Detto altrimenti: quale significato deve essere attribuito alle parole “attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni”?
Chi scrive ritiene che in tale concetto debba rientrare solo tutto ciò che risulta effettivamente urgente e indifferibile sotto pena di pregiudizio: un intervento di messa in sicurezza, il conferimento al legale dell’incarico per la costituzione in un procedimento d’urgenza, il pagamento di una bolletta che, ove non pagata, porterebbe all’interruzione del servizio, la presentazione di una dichiarazione fiscale (la cui mancata presentazione esporrebbe il condominio a sanzioni e interessi), il ritiro di un atto giudiziario notificato al condominio e la connessa informativa all’assemblea ex art. 1131, terzo comma, cod. civ. e così via.
Tutto ciò che può essere rimandato e/o lasciato al nuovo amministratore senza che il condominio subisca un autentico pregiudizio non rientra nel concetto di “attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni”.
E’ evidente che la domanda dianzi formulata non può avere una risposta che sia “buona” per tutte le latitudini e tutte le longitudini. Sarà necessario un concreto esame analitico, caso per caso, delle varie fattispecie.
L’amministratore non più in carica oggi – compensi
Come si è visto, la norma è esplicita: a sommesso avviso di chi scrive, le parole “senza diritto ad ulteriori compensi” sono di per sé sufficientemente chiare e portano a ritenere che, dopo la cessazione del suo incarico, l’amministratore non ha più diritto a percepire alcunché.
Questo è tanto più vero ed evidente alla luce del fatto che – come si è visto – la norma è cambiata nel corso della sua “gestazione”, arrivando alla attuale formulazione, nonché ala luce di come essa è cambiata.
Esiste una sola situazione, in cui l’amministratore cessato potrebbe legittimamente reclamare qualcosa: ci si riferisce all’ipotesi che, al momento della nomina dell’amministratore e, quindi, dell’indicazione del suo compenso ex art. 1129, quattordicesimo comma, cod. civ., l’assemblea e l’amministratore abbiano pattuito – con valenza, quindi, contrattuale – a favore del secondo uno specifico compenso per l’attività di passaggio di consegne. Tale pattuizione “sopravvivrebbe” alla cessazione dell’amministratore e, proprio perché “nata” specificamente in previsione del momento in cui l’amministratore avrebbe dovuto fare qualcosa senza essere più in carica, non sarebbe resa inefficacn dalla citata previsione dell’art. 1129, ottavo comma, cod. civ..
Per essere chiari:
se, dopo la cessazione del suo incarico, ordinasse e seguisse un intervento di messa in sicurezza, l’amministratore non avrebbe diritto ad alcun compenso;
se, dopo la cessazione del suo incarico, segue il passaggio di consegne con il suo successore, l’amministratore non ha diritto a percepire la somma a suo tempo espressamente e specificamente pattuita per tale attività.
