5 febbraio 2019
La natura materiale e giuridica delle criptovalute in Italia
L’inquadramento materiale
La circolazione delle criptovalute avviene attraverso reti i cui nodi sono rappresentati da computer di utenti che operano senza controllo di autorità centrali attraverso programmi informatici che svolgono la funzione di porta monete (e-wallet); la tecnologia in argomento rappresenta un processo in cui un insieme di soggetti condivide risorse informatiche al fine precipuo di costruire un database virtuale pubblico (e decentralizzato) allocato su un c.d. “database distribuito”, ovvero un database sincronizzato con tecniche crittografiche che non risiede su server controllati da un singolo utente, bensì é replicato su decine di migliaia di macchine dislocate in multiple località del mondo. Essendo tale libro contabile di pubblico accesso, taluni siti web ne consentono una consultazione in tempo reale (inter alia, si veda www.blockchain.info). Le informazioni così raccolte sono considerate certe dalla comunità che condivide il processo perché tutti gli utenti possono vedere tale database e poiché ogni partecipante ha una copia dei dati in virtù della decentralizzazione. Protocollo e crittografia rappresentano i pilastri della fiducia dei partecipanti nei dati archiviati: tale sistema è quindi potenzialmente idoneo a sostituire quella fiducia che, ad oggi, solo i pubblici registri sono idonei a garantire in quanto “terza parte affidabile”, per effetto del riconoscimento di “autorità” che il quadro regolamentare riconosce loro.
A far data dal 2008 la denominazione Blockchain - definibile in italiano “catena di blocchi” – è stata riferita in modo pressoché univoco al registro contabile su cui vengono registrate le transazioni in ambito finanziario compiute dagli utenti; storicamente, infatti, Blockchain ha rappresentato l’architrave di funzionamento della più nota fra le c.d. valute virtuali, il bitcoin; la definizione più ricorrente della tecnologia Blockchain in relazione al fenomeno bitcoin è quella di “public ledger that records bitcoin transactions”.
L’inquadramento giuridico
Secondo il nostro Legislatore la criptovaluta è “la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da una autorità pubblica, non necessariamente collegata ad una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
L’intervento normativo segue di un paio di anni quello dell’autorità di vigilanza risalente al 2015 in occasione del quale Banca d’Italia ebbe a scrivere “in Italia, l’acquisto, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute virtuali debbono allo stato ritenersi attività lecite; le parti sono libere di obbligarsi a corrispondere somme anche non espresse in valute aventi corso legale” (cfr. comunicato in data 30.01.2015 avente ad oggetto “Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette valute virtuali”). Nel medesimo anno anche la Corte di Giustizia Europea (causa C-264/14 in data 22.10.2015) si era interessata del tema nell’ambito di vicenda relativa ad operazioni di cambio di valuta tradizionale contro criptovaluta e viceversa compiute mediante pagamento della differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti (concludendo per una valutazione di tale operazione quale prestazione di servizio a titolo oneroso ai fini IVA).
Singolare, per la verità, la sedes materiale della definizione di criptovaluta che si rinviene in seno al decreto (D. Lgs. 90/2017) di attuazione della direttiva UE 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo ove è introdotta, alla lettera qq), la nozione di valuta virtuale. Il medesimo decreto, poi, fornisce la definizione di prestatore di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale identificando in esso “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale”(cfr. art. 1, comma 2, lett. ff) D. Lgs. 231/2007 come modificato dal D. Lgs. 90/2017).
Appare certo che le criptovalute non possano assimilarsi alla moneta c.d. “fiat”: le previsioni contenute nel D. Lgs. 141/2010 (“Attuazione della direttiva 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori, nonché modifiche del titolo VI del testo unico bancario (decreto legislativo n. 385 del 1993) in merito alla disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario, degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi) in punto di previsione della operatività in valute virtuali distinte da quelle legali e di necessaria iscrizione dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali in una sezione speciale del registro dei cambiavalute consentono di escludere che le criptocurrencies possano qualificarsi valute. Ad identica esclusione pervengono le ricostruzioni offerte dalla dottrina che ha esaminato il tema sotto il profilo funzionale della teoria economica.
Escluso altresì che si tratti di documento informatico ai sensi del Codice dell’Amministrazione Digitale o di bene immateriale, decisamente più convincente si rivela la qualificazione offerta dalla ricordata sentenza del Tribunale di Firenze che, nell’articolata ricostruzione del fenomeno offerta in parte motiva, qualifica espressamente la criptovaluta come mezzo di scambio (oltre che strumento di speculazione) alla stregua di un bene - in quanto oggetto di diritti - ai sensi dell’art. 810 c.c., destinato ad operare in un sistema non regolamentato e su base meramente pattizia, con conseguente esigenza di una attenta valutazione dei rischi connessi e derivanti dal non rappresentare l’e-coin moneta legale o virtuale, stante la base volontaria sottesa a tale funzione di scambio.
